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Lu e la sospensione del giudizio

Lu e la sospensione del giudizio

Ieri sul Corriere di Bologna è stata raccontata la storia di un bimbo, nato fortemente prematuro e non riconosciuto dai genitori. Il piccolo sta lottando per la vita e potrebbe dover convivere con una grave disabilità. I genitori, che lo hanno a lungo cercato, non se la sono sentita di tenerlo e il tribunale ha già individuato una famiglia adottiva.

Dopo aver letto la notizia ho dedicato un po’ di tempo alla lettura dei commenti. Tante persone hanno espresso vicinanza al piccolo e ai suoi genitori adottivi, altri hanno duramente criticato la scelta dei genitori naturali. “Indegni” è forse l’epiteto meno offensivo che è stato rivolto loro.

Questo secondo tipo di commenti mi ha particolarmente colpita. Probabilmente mi ha spinto a riflettere sul giudizio verso il parto in anonimato e la possibilità, offerta dalla legge, di non riconoscere il bambino.

Quando un nenonato viene gettato nel cassonetto o è vittima di infanticidio, tutti ( o almeno molti di noi) invocano (probabilmente anche ingenuamente) il parto in anonimato. Quando un bambino, specie se con una disabilità e/o concepito con una pma, viene “lasciato” in ospedale, spesso giudichiamo questa scelta, anche con toni molto duri. Altrettanto spesso tralasciamo, sull’onda della risonanza emotiva, di provare a capire quali possano essere i motivi di tale scelta.

Ogni volta che sento parlare di neonati uccisi o “rifiutati”, pur trattandosi di situazioni molto diverse, mi torna in mente un episodio. Ai tempi del tg, mi capitò di raccontare una storia tristissima, di dolore, morte, solitudine. Ricordo perfettamente i dettagli ma non li scrivo perchè credo che i suoi protagonisti abbiano diritto all’oblio. Resto convinta ( o forse voglio credere) che un parto in anonimato avrebbe potuto costituire un’alternativa al tragico epilogo di quella vicenda.

Quella storia mi ha assalito immediatamente dopo aver saputo che Lucrezia sarebbe nata morta. ” A me la strappi e lasci che altri li buttino via o li ammazzino?!” ho chiesto a Dio, dubitando della sua esistenza e al contempo dandogli del tu. Il tu della rabbia e della mancanza di stima, non quello di amicizia e vicinanza. A quel pensierò si accompagnò in quel momento una rabbia enorme e qualcosa di simile all’odio verso tutte quelle donne che, in un modo o nell’altro, avevano rifiutato i loro bambini.

Credevo di aver dimenticato questo episodio, invece mi torna in mente ogni volta che qualcuno giudica o augura tutto il male possibile a chi “rifiuta un figlio”. Quel pensiero che fu così pervasivo mi spaventò parecchio. A dirla tutta, me ne vergogno ma non credo sia stato vano.

Credo di aver impiegato parecchio tempo a capire che trasformare la rabbia in odio, non solo non mi avrebbe restituito la mia bambina ma mi avrebbe reso peggiore. Non avrebbe cambiato di una virgola la mia storia passata. Non avrebbe salvato i bambini morti. Coltivare quel rancore avrebbe però inciso sul mio futuro, sul mio guardare e muovermi nel mondo.

Riversare cattiveria e giudizi trancianti non serve a nessuno, non riduce il dolore di nessuno. Non aiuta a salvare ciò che si può ancora salvare, non aiuta a tentare di comprendere e neppure a trovare alternative. Non smuove un solo tassello in un’ottica di prevenzione o sensibilizzazione.

Non so se senza Lu avrei compiuto lo sforzo di sospendere il giudizio. Ho letto tanto sulla sospensione del giudizio ma dovendo applicare questo concetto a me stessa lo definirei in termini molto poco pedagogici come “lo sforzo di andare oltre la prima cosa che mi passa per la testa , lo sforzo di far risalire le parole dallo stomaco fino al cuore e al cervello.

Probabilmente, più che giudizi disseminati sul web o sussurrati al parco servirebbe una riflessione sui diritti dei bambini e le responsabilità degli adulti. Tutti.

Le notizie di infanticidio continuano a provocarmi una grande tristezza, quelle di chi sceglie di non riconoscere il proprio bambino no. Per quanto possano apparirci incomprensibili, infatti, si collocano dalla parte della vita. Immagino sia una scelta sofferta e dolorosa per chi la compie e non priva di conseguenze sul bambino o la bambina che prima o poi dovrà fare i conti con questo pezzo della sua storia. Eppure in molti casi resta forse l’unica alternativa alla morte.

So di aver mescolato argomenti tra loro diversi ma spero di aver dato forma alla mole intricata di pensieri che mi ha spinto a scrivere. Si tratta semplicemente di un post su un blog e come tale non può e non vuole affrontare le mille sfaccettature anche etiche che un tema così complesso e delicato porta con sè.

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