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Dissonanze. O forse no.

Dissonanze. O forse no.

Ieri alle 12 Bologna si è fermata. In Piazza Nettuno, il sindaco, il vescovo e i rappresentanti delle comunità islamica e ebraica, hanno reso un silenzioso omaggio ai morti. Uomini e donne, per lo più vittime della pandemia, rimasti in molti casi senza funerale. Il silenzio è stato accompagnato dal rintocco a lutto delle campane, quelle delle chiese e quella del palazzo comunale.

Mi sono accorta che erano le 12 soltanto perchè lo sguardo è caduto sul telefonino mentre facevo fare i compiti al selvaggio. Ho spalancato la porta finestra della cucina e sono uscita sul balcone. Fuori risuonava il rintocco funebre delle campane. Dentro i bambini continuavano a borbottare mentre facevano i compiti. Fuori il silenzio, triste e surreale. Dentro il rumore. Fuori la morte. Dentro la vita. Fuori l’eccezionalità tragica. Dentro una normalità deformata ma non sconvolta.

Per un attimo ho avvertito la dissonanza, un qualcosa di non armonico fra il silenzio rotto soltanto dalle campane a lutto e le voci dei bambini. Ma non gli ho chiesto di stare zitti. Non l’ho fatto per non caricarli di un peso che forse non riuscirebbero a comprendere ma non per proteggerli dal dramma che si sta consumando intorno a noi e che colpisce le comunità, via via più ampie, di cui siamo parte. Anche se raramente chiedono informazioni, hanno capito, almeno in parte, ciò che sta accadendo. Ci sentono commentare le notizie, cercare di decifrare i bollettini diramati dalla protezione civile, esprimere preoccupazioni.

No, non ho cercato di proteggere loro. Non direttamente, almeno. Forse, ho soltanto cercato di proteggere me stessa. Oppure,ho semplicemente cercato un equilibrio tra la tristezza, lo sgomento, il disorientamento per ciò che sta accadendo e il non lasciare che abbia il sopravvento.

Quel che provo non può certo essere paragonato al dolore di chi sta vivendo questa trgedia sulla propria pelle, un dolore che fatico anche a immaginare. E forse è proprio per questo che a volte, quasi, mi sento in colpa per la normalità di queste nostre giornate.

Eppure questa normalità è necessaria, vitale. Non è un’allegria a tutti i costi. Anzi. A volte è un dribblare difficoltà, uno sbottare per niente. Altre è un continuo aggiustare, un tenere a freno rimpianti e frustrazioni acuiti dalla clausura. Altre ancora è la felicità vera di saper sorridere o ridere di gusto per un’uscita spontanea del selvaggio, un’attenzione colma di dolcezza della fanciulla o una sonora risata della preadolecente.

Il contrasto tra interno è esterno si è ripresentato la sera quando in tv scorrevano le immagini di Piazza San Pietro. Il Papa solo, o quasi. Le sue parole. L’ostensorio tra le mani. La pioggia scrosciante. Il silenzio. La piazza deserta. E accanto a me ancora il brusio, le voci del trio nell’altra stanza. Da una parte un’immagine la cui forza restituisce la misura della tragedia. Dall’altra un rumore caldo, rassicurante.

Dissonanze. O forse no.

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