Il mio professore di filosofia
Continua a circolare e a far discutere la lettera-appello con cui 600 docenti universitari hanno espresso una fortissima preoccupazione per il modo in cui gli universitari scrivono in italiano. Gli accademici hanno spiegato che si ritrovano a correggere tesi di laurea con errori grammaticali mal tollerabili anche in terza elementare. In questi giorni se ne è parlato tanto puntando il dito soprattutto contro le riforme messe in campo da chi si è avvicendato a Viale Trastevere negli ultimi 20 o forse 30 anni. Non è certo questo il luogo per discutere di politiche scolastiche e neppure di come sms, WhatsApp e social abbiano cambiato il nostro rapporto con la scrittura e modificato la lingua. Scrivo solo perché questa vicenda ha richiamato alla mente il mio professore di filosofia ( di filosofia, badate bene, non d’italiano) del liceo.
Io ho fatto il linguistico in provincia e ho sempre avuto l’impressione che per molti insegnanti noi, semplicemente, non eravamo quelli del classico e neppure quelli dello scientifico. In altri termini, covo il sospetto che per alcuni, non per tutti fortunatamente, fossimo mediamente meno dotati e promettenti dei nostri coetanei dei licei seri. Scrivo questa premessa perché sono convinta che per quel professore ( prof non era ancora così di moda come oggi) non fosse così. Gli anni’90 erano già nella seconda metà e lui aveva poco più di 30 anni, o almeno credo. Portava i jeans e qualche volta sotto la sua giacca si intravedeva la maglietta de Il Manifesto, anche se non ricordo abbia mai fatto propaganda.
Ma torniamo all’italiano. Sono due i motivi, o meglio gli episodi, per i quali la lettera dei 600 prof mi ha fatto pensare a lui. Il primo non ricordo di preciso quando avvenne ma ne rammento gli effetti. Ci aveva chiesto di mettere sulla cattedra degli elaborati. Non so dire quale fosse il tema ma ero sicura di aver fatto un buon lavoro. Il giorno dopo è tornato in classe con i compiti corretti. Il mio però non lo aveva corretto. ” Ho visto che ci sono degli errori di ortografia, io questo non lo correggo” mi disse secco. Ci rimasi male, molto male, però da allora ho iniziato a fare quello che mi veniva raccomandato fin dalle elementari: rileggere e usare il dizionario. Un compito non corretto mi ha spalancato un mondo: scrivere, o almeno il provare a farlo, correttamente è una forma di rispetto, rispetto verso chi legge e anche verso la cultura stessa.
Il secondo episodio, invece, risale al secondo quadrimestre della quinta. Storia era una delle mie materie preferite ed ero anche piuttosto brava. Ricordo che mi chiamò per un’interrogazione e mi congedò, causa campanella dell’ultima ora, con un “va bene”. Non la mandai giù e glielo dissi. Il giorno dopo mi portò un plico di fogli fotocopiati. ” Vediamo se ci capisci qualcosa!” fu il solo commento. Quei fogli contenevano degli scritti di Gramsci. Non certo una letturina leggera per una studentessa di quinta liceo. Passai molte ore su quel testo che avrei poi dovuto spiegare alla classe. Il compito era in se semplice e al tempo stesso complesso: ricavare da un testo sconosciuto i concetti chiave, riordinarli e renderli comprensibili agli altri. Questo, ovviamente, l’ho capito dopo, perché al momento ciò che mi premeva era vincere quella che consideravo una sfida.
Prima dell’esame di maturità mi regalò gli appunti con cui aveva preparato una lezione su Marx. Li conservo ancora: una mappa concettuale, scritta in nero e sottolineata in rosso. Ieri Augusto Sainati ha scritto che il lavoro del formatore è stato via via svilito portando a considerare gli insegnanti più burocrati che intellettuali. Ecco, il punto è proprio questo: il mio professore di filosofia era, e spero ancora lo sia, un intellettuale. Le sue lezioni mi sono tornate utili all’università; non solo per il suo contributo a ridurre drasticamente gli “orrori” di italiano e a controllare in maniera quasi maniacale doppie e accenti. Se mai leggerà questo post, spero non trovi errori di ortografia e grammatica e che perdoni le frasi un po’ troppo arzigogolate.
Foto Pixabay
Ciao, oggi la scuola serve solo per avviare al lavoro. Tutto è in funzione di questo obiettivo, la cultura centra molto poco..
Ammetto di essere lontana dalle aule delle scuole superiori e di non poter dare quindi un giudizio sul valore della cultura nella scuola di oggi. Però, quando vedo mia figlia che fa la quarta elementare divorare in due giorni una versione per bambini de L’Orlando Furioso e quella più piccola cercare di capire le regole grammaticali e l’insiemistica, mi concedo il lusso di essere se non ottimista almeno possibilista. Quanto alle politiche e alle riforme per la scuola, ripeto, ci sarebbe da scrivere fiumi di analisi e in molti lo hanno fatto anche con pareri discordanti. Grazie per il tuo contributo!
Ciao Francesca, sei più che giustificata per il tuo ottimismo! Sarei felice anche io con due bimbe così…