Preti, concerti e figli
L’altra sera mi sono imbattuta per caso nella lettera scritta da monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara e Comacchio, alle vittime dell’attentato di Manchester. Ho letto d’un fiato le parole rivolte alle 22 vittime dell’attentato terroristico e non riesco a togliermele dalla testa. Come non riesco a discostarmi da quella che è stata la prima impressione: quella di essere di fronte ad un’ invettiva contro la contemporaneità tutta. Il rivolgersi a quei ragazzi morti per mano di un giovane kamikaze mi è parso un pretesto o poco più per condannare in toto o quasi i giovani e gli adulti di oggi. Non riesco ad archiviare quelle parole perché mi hanno colpita, mi hanno chiamata in causa come mamma e come donna.
Non mi piacciono le condanne senza appello ad una società, anche se questa ha duemila e uno difetti. Ancor meno mi piace la condanna di chi, a 15, 20 0 40 anni, ha perso la vita, reo soltanto di essere andato ad un concerto di una cantante che finora mi era sconosciuta. Chi scrive sembra conoscerli uno per uno quei ragazzi e i loro genitori, ma probabilmente non li ha mai visti. Eppure attacca sugli uni e sugli altri certezze e accuse, quasi senza rendersi conto che tra gli adulti che bolla come colpevoli ci sono genitori che hanno appena vissuto la morte di un figlio, genitori che stanno vivendo un dramma e che di tutto hanno bisogno fuorché di parole come quelle.
Magari tra loro c’è qualcuno, fosse anche solo uno, che ha dovuto aspettare tanto tempo prima di stringere tra le braccia quel figlio ma il vescovo sentenzia che sono venuti al mondo “molte volte neanche desiderati”. E subito rincara sentenziando che a quei ragazzi nessuno ha dato “ragioni adeguate per vivere”. Come faccia ad esserne certo non è dato saperlo. Sono ragazzi a cui nessuno ha trasmesso dei valori. Questa appare come una certezza granitica.
Se davvero sta parlando dei ragazzi morti a Manchester l’assenza di valori è stata probabilmente dedotta dal fatto che si trovassero ad un concerto di musica pop o dalla loro appartenenza generazionale. Questo per me mamma è sconcertante. Come lo è la certezza con cui il monsignore afferma i due grandi principi che hanno guidato le loro giovani vite spezzate: il poter fare tutto ciò che si desidera e l’importanza di possedere sempre un maggior numero di beni di consumo. Due tendenze che esistono, e che non piacciono neppure a me ma a cui vedo alternative possibili e praticate.
Non so come siano stati cresciuti quei ragazzi e quelle ragazze. Magari qualcuno ha ottenuto di poter andare al concerto dopo essersi visto negare il permesso di partecipare ad altri eventi. Forse qualcuno per quel concerto ha rinunciato a qualcos’altro oppure ha racimolato i soldi del biglietto con qualche lavoretto. Non ero a casa loro quando hanno comunicato ai genitori il desiderio di andare a sentire dal vivo la loro cantante preferita. E dunque semplicemente non so. Magari a quel concerto c’erano dei ragazzi che nel tempo libero si dedicano agli anziani del quartiere, aiutano i loro compagni con i compiti, fanno compagnia alla nonna che non può uscire di casa. E se anche così non fosse, che senso ha bollarli come giovani a cui nessuno ha dato ragioni adeguate per vivere?
A quei giovani, scrive ancora il vescovo, nessuno ha mai detto che esiste il male e che questo è una persona. Da mamma stento a crederlo. Trovo più verosimile che gli sia stato detto e ripetuto. Immagino che gli sia stato anche detto che l’esistenza del male non deve impedire di vivere.
Ho paura dei pedofili, dei rapitori, dei ladri e pure dei terroristi. In questo caso il male è rappresentato da un terrorista seguace dell’Isis: trovo più credibile che quei ragazzi conoscessero l’esistenza e il pericolo di questi terroristi e che semplicemente e banalmente non volessero rinunciare alle piccole gioie della loro età perchè se il pericolo è ovunque si deve rinunciare a tutto.
Lo immagino perché penso a questa presenza ogni volta che salgo su un treno, entro in un posto affollato, partecipo ad un evento collettivo. Sono arrivata a pensare alla possibilità che un terrorista si faccia saltare in aria mentre i nostri bimbi escono da scuola oppure mentre ci fermiamo a chiacchierare sul sagrato della chiesa dopo la messa. Evito viaggi in aree a rischio ma non rinuncio alle capitali, al parco, alla messa. Ai concerti sì, ma solo perché i biglietti per gli artisti che mi piacciono sono fuori dalle mie possibilità di spesa.
Io me lo ricordo il mio primo concerto. La location era il minuscolo stadio di Carbonia, sul palco c’era Ligabue che all’epoca aveva inciso solo il primo e omonimo album. Niente a che vedere con il concerto di Vasco Rossi a San Siro di molti anni dopo ( ho dei gusti musicali un po’ provinciali ma credo sia un altro discorso) eppure mi ricordo le emozioni di quel giorno e la contentezza di sapere che con me, accompagnata dal mio fratellone, sarebbe venuta anche una mia cara amica.
Non ho mai pensato che andare a un concerto fosse indice di assenza di valori e povertà spirituale e spero di non arrivare a pensarlo mai, neppure quando tra qualche anno le gnome mi chiederanno di andare a sentire Gabbani o chi per lui. Credo ci sia un abisso tra il mettere volontariamente a repentaglio la propria vita e il rinunciare per paura a ciò che di bello può offrirci. E il bello a volte ha la forma banale e per alcuni incomprensibile della leggerezza come quella che si respira ad un concerto, ad una serata tra amici a ridere di niente, a cantare in spiaggia fino all’alba o davanti ad un maxischermo per una partita dei mondiali. Esperienze forse futili ma che sono lieta di aver vissuto se non altro perché hanno rinsaldato legami e amicizie capaci di resistere agli urti e alle alterne vicende della vita. Per alcuni probabilmente appartengo a quella generazione vittima del nichilismo che fa da sfondo alla missiva del prelato, io credo più semplicemente di essere figlia del mio tempo e di non rimpiangere un “età dell’oro” che non ho vissuto e che dubito sia stata veramente tale.
A dirla tutta trovo sprezzanti anche le parole sui rituali collettivi che seguono questi attentati. Perché bollare negativamente chi porta un fiore o un peluche sul luogo della tragedia? Forse sbaglio, ma credo che la partecipazione collettiva sia un segno di quell’umanità che più d’uno considera morta e sepolta. Sulle frasi relative alla guerra di religione non mi soffermo: sono quelle su cui si sono incentrate le cronache e i commenti. Andate a vederle se vi va, credo offrano uno spaccato dello scontro tra correnti di pensiero. Io non mi sento vittima di una guerra di religione ma è solo la mia personale e non dotta impressione.
Il passaggio finale è una preghiera a Maria. L’ho trovata spiazzante: dove speravo di trovare finalmente la semplicità di un’invocazione ho trovato le parole “vite sprecate”. Io riesco a vedere soltanto delle vite spezzate dalla follia e dalla violenza. Credo basti leggere le cronache per capire che dietro ad ognuna delle vittime c’era una storia, degli affetti, una vita. Neppure davanti a quella che ci può apparire la più povera e banale credo ci si possa spingere fino a definirla “sprecata”.
Questa lettera che non avrei voluto leggere mi ha fatto pensare a quanto io sia stata fortunata. Ho la fortuna immensa di non essere incappata in un attentato terroristico ma ho anche la fortuna di aver compiuto un percorso e incontrato compagni e compagne di strada da cui ho imparato più di quanto abbiano avuto la pretesa di insegnarmi.
Ho la fortuna, per esempio, di aver conosciuto tanti sacerdoti che mi hanno fatto intuire la bellezza dell’essere Chiesa, nonostante gli eccessi di alcuni e le parole per me incomprensibili di altri.
Ho avuto la fortuna di conoscere preti che mai hanno attaccato etichette a me o ai miei amici per il nostro andare ai concerti o a ballare. Preti che ci hanno sempre spronato a sperimentare attraverso esperienze di servizio e preghiera il Vangelo di cui erano e sono testimoni. Preti diversi per età, formazione, personalità. Alcuni hanno accompagnato la crescita umana e spirituale di una generazione o più, altri ancora lo fanno.
Preti di periferia, preti di palazzo, preti impregnati di cultura. Persone capaci di vivere il Vangelo ed essere presenza viva del Risorto e della sua Misericordia. Alcuni sono punti di riferimento delle loro comunità, altri sono noti per il loro impegno civile. Uno neppure lo conosco personalmente ma cerco di leggere le sue parole ogni volta che posso: va in giro vestito di bianco e non disdegna i luoghi degli ultimi. Credo che abbiano in comune delle cose bellissime: la fedeltà al loro ministero e la capacità di stare tra la gente, la delicatezza per accompagnare nel dolore, l’entusiasmo per condividere le gioie, il coraggio per infondere la speranza, l’autorevolezza per indicare la strada e la necessità di invertire rotta con la forza dell’esempio.
Tutti credo siano anche portatori di un dono che fatico (forse è un problema mio) a ritrovare in quella lettera: l’amore per il prossimo e non la paura del mondo, un mondo di cui riconoscono e i mali e si impegnano a cambiare. Tra le righe di quella lettera trovo una condanna del mondo di oggi e la paura che la nostra civiltà venga travolta e sconfitta, ma non riesco a intravedere la presenza del bene, quasi fosse stato sepolto anni addietro. Citando il cardinale Sarah, il vescovo scrive che “nelle chiese cattoliche oggi si celebrano i funerali di Dio”. La mia impressione, che vale quel che vale, è che nelle chiese e ovunque ci si raduni per il banchetto eucaristico, anche nelle situazioni più dolorose, si celebri l’Amore di Dio. L’ho già scritto: è la mia impressione su una materia complessa di cui so di sapere troppo poco.
Se ho scritto questo post è solo perché quanto ho letto mi ha colpita. Come mamma sbaglio duemila volte al giorno e se c’è una cosa che i miei figli mi insegnano ogni giorno è la cautela nel giudicare frettolosamente, arte di cui ancora ho molto da imparare. Di una cosa però sono convinta: la società in cui viviamo non è certo il migliore dei mondi possibili ed è anche per questo che abbiamo bisogno di alleanze educative e non di dita puntate. Alleanze educative che mi sforzo di cercare in tutti gli ambiti che reputo importanti per la crescita dei miei figli e che finora non sono mancate.
Lungo post il tuo, ma l’ho letto con interesse.
Partiamo dal fatto che non conoscevo lettera scritta da monsignor Luigi Negri e sinceramente non m’interessa leggerla. Magari la sua era una provocazione? Non so, i presti hanno la necessità di provocare come alcuni giornalisti?
Chi è Ariana Grande? Una giovane cantante, molto carina, che sa di essere carina, si mostra sempre nella sua bellezza (o le dicono di farlo) ma che ha anche una bella voce, tanto da duettare con Stevie Wonder e John Legend. Non lo do per certo, ma non credo che nei suoi concerti troveremo cose tipo Marilyn Manson o Madonna degli anni ’90. E amata dagli ragazzini e so che una delle vittime l’adorava tantissimo ed era la seconda volta che andava ad ascoltarla. Questo lo dico semplicemente per arrivare al punto della questione: se la Grande è un’artista, con una bella voce e con collaborazioni importanti, come fa un suo concerto a essere qualcosa lontano da alcuni valori? L’arte la reputo un valore, qualcosa che ci fa stare bene e ci può far stare insieme. Danzare, cantare, andare a un concerto, suonare musica insieme ci avvicina. Non vedo nell’arte e nella musica un allontanamento ai valori, non credo che i genitori di questi poveri ragazzi siano da condannare perché hanno mandato i figli al concerto di una pop star. Il problema non sono loro o i valori che hanno trasmesso.
Scrivere una cosa del genere non è bella e sono parole di persone con la mente piccola, mi spiace per il monsignor, ma i tempi in cui la musica era il demonio è passato (anzi non è mai esistito).