Il tempo e i bottoni
Sta sul letto. In mutande. Le dita maneggiano i bottoni. Gli occhi fissano le asole. Dita e occhi lavorano all’unisono. È concentrato. Lo guardo e mi tornano in mente le pagine in cui Maria Montessori descrive i piccoli delle Case dei Bambini intenti al telaio delle allacciature e alle prese con gli altri materiali di sviluppo. Lo lascio fare, continuo a guardarlo. Mi sono offerta di aiutarlo e ha risposto, quasi offeso, “faccio da solo”. Ci mette un po’, alla fine corre davanti allo specchio e guarda soddisfatto la camicia abbottonata. L’immagine riflessa nello specchio è un misto di felicità, vanità e gratificazione. Gli piace indossare la sua camicia a quadri ma probabilmente gli piace ancor di più abbottonarla, far scivolare lentamente i bottoni dentro le asole. L’incastro gli deve apparire come una piccola sfida.
Mettiamo raramente la camicia. Stirare le magliette è più semplice ma soprattutto è più semplice e soprattutto rapido indossarle al mattino, quando il tempo è o appare tiranno. La tentazione è quella di vestirlo di tutto punto, di ignorare le sue richieste di autonomia. Per fortuna ha un bel caratterino e così mi tocca capitolare e lasciare che si vesta da solo, che litighi con la maglia, discuta coi calzini, contratti con i pantaloni.
L’altro giorno avevamo un po’ più di tempo del solito. Era domenica. Non c’era un orario inderogabile da rispettare. Non c’era lo spettro del “è tardi” a insinuarsi tra lui e i bottoni della camicia a quadri. E così ha speso un quarto d’ora della sua giornata a far combaciare ogni bottone con la sua asola. A guardarlo da lontano, da oltre la porta, quell’abbottonare appariva come un rito, solenne nella sua semplicità. Disturbarlo, chiedere “hai finito” sarebbe stato una sorta di sacrilegio.
Motricità fine, così credo che gli esperti chiamino quello che i miei occhi non smettevano di contemplare. Ma oltre a sviluppare la sua manualità e la coordinazione occhio-mano, mio figlio stava esercitando il suo desiderio di autonomia. Un desiderio che troppe volte rischio di calpestare in nome di una fretta su cui, almeno a volte, dovrei e potrei sorvolare.
Le manine, gli occhi, la concentrazione leggibile sul suo viso tondeggiante mi sono apparse come qualcosa di grande. Erano il riflesso di quel “faccio da solo” che altro non era che un “lasciami fare da solo”, “ci riesco”. E mentre lo guardavo mi è tornato in mente un passo de La scoperta del bambino. “Non si può essere liberi se non si è indipendenti; quindi, al fine di raggiungere l’indipendenza, le manifestazioni attive della libertà personale debbono essere guidate dalla primissima infanzia” scrive Maria Montessori. E l’indipendenza si conquista anche abbottonando una camicia. Non so se la pedagogista più famosa d’Italia sarebbe d’accordo nel definire “esercizio di vita pratica” quello che il selvaggio stava facendo. So per certo, invece, che per lui è stata una piccola conquista. E forse non c’è solo un’adorabile frivolezza nel reclamare la camicia e nel pretendere di abbottonarla senza interventi esterni. C’è un qualcosa in più, un qualcosa che si cela nel labile confine tra l’aiuto che libera e quello che frena, e che, dunque, aiuto non è.