28 marzo 1997: il naufragio del Kater I Rades
Era Venerdì Santo e 81 persone morirono nel Mediterraneo. La tragedia non avvenne a largo delle coste siciliane ma di quelle pugliesi. Era il 1997 e i profughi erano a bordo della Kater I Rades, imbarcazione che venne speronata da una nave della marina militare italiana nel tentativo di farle invertire la rotta. La motovedetta era partita dal porto di Valona intorno alle 15 con a bordo 120 persone, molte di più delle 10 per cui era stata progettata. A bordo c’erano uomini, donne, bambini, in fuga da quello che all’epoca era un paese allo sbando: l’Albania. Alle 17.15 la Kater I Rades venne avvistata dalla Zeffiro. La nave della nostra marina militare intimò di cambiare rotta ma la motovedetta proseguì il suo avvicinamento verso le coste italiane. Più tardi, erano le 18.57, venne speronata dalla corvetta Sibilla impegnata in un’azione di dissuasione. La Kater I Rades affondò in meno di 15 minuti. Delle 120 persone a bordo, 81 persero la vita ma solo 57 corpi vennero recuperati, 24 sono stati inghiottiti dal mare. Quel che accadde quella sera di 21 anni fa è ricordato come il “naufragio del Venerdì Santo”. L’iter processuale si è concluso pochi anni fa con la condanna dei comandanti della Sibilla e della motovedetta albanese.
Nel 2014 quanto accaduto nel Canale di Otranto è stato trasposto sulle pagine del fumetto Kater I Rades, il naufragio della Speranza di Francesco Niccolini e Dario Bonaffino, edito da Becco Giallo. Nel 2011, il giornalista Alessandro Leogrande, recentemente scomparso, aveva ripercorso la vicenda nel suo Il naufragio. Morte nel Meditteraneo, pubblicato da Feltrinelli.
Per me, il 1997, è stato l’ultimo anno di Liceo. Ricordo gli sbarchi degli albanesi, iniziati anni prima, nelle immagini dei telegiornali. Nel 1991, raccontano le cronache, si parlò a lungo dei 20 mila sbarcati dalla Vlora a Bari e rinchiusi nello stadio della città, prima di essere espulsi. Il naufragio della Kater I Rades, invece, non lo ricordavo e forse me ne sarei scordata se non mi fossi recentemente imbattuta nelle pagine di Andrea Ravenda in Chi, cosa Rifugiati Trasnazionalismo e Frontiere (2016, Mincione Edizioni). I resti dell’imbarcazione, salvati dalla distruzione, sono stati trasformati in un memoriale, un momumento nel porto di Otranto.
In Albania la situazione era fuori controllo da tempo, in Italia si parlava di “emergenza albanesi” e pochi giorni prima del naufragio, il 25 marzo, il Governo Italiano, guidato da Romano Prodi, aveva firmato un accordo con l’Albania per il contenimento del traffico clandestino di profughi. La linea dura era stata anticipata qualche anno prima con la Legge Puglia e proseguì con la Turco Napolitano del 1998 e con la successiva Bossi-Fini. Nel corso degli anni’90 i migranti provenienti dall’Albania avevano subito una metamorfosi: nell’immaginario collettivo erano stati trasformati da “poveri e disperati” a “delinquenti. Irene Pivetti, già ex presidente della Camera, arrivò a suggerire di “ributtare in mare” gli albanesi, dichiarazione bacchettata dall’Osservatore Romano e non solo e che restituisce, almeno in parte, il clima del tempo.
Pattugliamenti e opera di convincimento si tradussero, nei fatti, in un blocco navale, criticato dalle Nazioni Unite. I profughi erano ormai divenuti immigrati clandestini, non più persone da accogliere ma non persone, per usare un’espressione del sociologo Dal Lago, “da respingere” Il naufragio fu il risultato di un’operazione di respingimento in mare. “Il naufragio indotto dal blocco navale e la morte dei migranti albanesi- scrive Ravenda – ha stabilito in maniera netta e brutale la differenza di diritto alla cittadinanza tra i paesi membri dell’Unione Europea e l’esterno dei suoi confini.”
All’indomani del naufragio si susseguirono espressioni di cordoglio e sdegno. Tra le più citate figura quella di Silvio Berlusconi, allora capo dell’opposizione, che dichiarò all’Ansa: “Credo che l’Italia non possa accettare di dare al mondo l’immagine di chi butta a mare qualcuno che fugge da un Paese vicino, temendo per la sua vita, cercando salvezza e scampo in un paese che ritiene amico”.
Quanto avvenne in quegli anni nel mar Adriatico può essere considerato una sorta di laboratorio di quanto continua ad avvenire oggi nel Meditterraneo in un susseguirsi di sbarchi, naufragi che hanno trasformato il mare in una gigantesca fossa comune. Non un cimitero con le lapidi a ricordare nomi e volti ma uno spazio indistinto che accoglie vittime indistinte, generici “migranti” senza nome, senza futuro e senza neppure un passato individuale riconosciuto.
Perché questo post in un mamma blog? Esattamente non lo so neppure io. Le ragioni però potrebbero essere almeno due. Ho sempre subito il fascino della storia, dell’intersecarsi di passato e presente, del tentativo di trovare in ciò che è stato precedenti e possibili interpretazioni di ciò che accade. Forse un giorno i nostri viaggi, quelli allegri e vacanzieri, così diversi da quelli di chi scappa, ci porteranno a Otranto e saprò, o almeno proverò, a dire qualcosa per rispondere alle domande che spero sorgano davanti a quell’installazione che dovrebbe preservare la memoria.
Cavolo, io tutta ‘sta storia non la ricordavo! Forse perché ero più piccola e/o mi interessavo meno di queste cose… Mi ricordo sì della “emergenza albanesi”, io facevo le medie in un paesino a 5 km da Lecce e in seconda arrivò questo ragazzo, Vladimir, che scappava dall’Albania ed insieme alla sua famiglia era finito nel nostro paesello. Suo fratello finì in classe del mio, alle elementari.
Leggere le parole di Berlusconi… Si ride per non piangere, visto come sono andate le cose dopo…